I bugres
… Era ancora l’estate subtropicale, l’ultimo caldo forte. E in un giorno di quella calura Rio Bonito cadde nella disperazione, nello sconforto, poi nella preghiera, quindi nella rabbia e nella crudeltà.
Alfeo Colombo stava dando una mano ai suoi vicini, a due chilometri forse dalla sua nuova casa. Due chilometri di foresta. La moglie Celestina era fuori, nell’orto quando sentì quell’urlo. Voleva essere un suono di uccello ma non era tempo adesso, era la notte che quell’animale cantava. I peli le si rizzarono sulle braccia e sulle gambe e istintivamente urlò il nome della figlia undicenne: -Maria! Maria!
E corse d’istinto verso il rio dove la bambina s’era recata per sciacquare dei panni. Cento metri forse e ancora quel verso, poi ancora e dopo altri cento metri di corsa folle e urla della figlia che rispondeva alla madre, netto un sibilo ed un tonfo sordo come legno che battesse sul tronco di bananeira. Era l’anima di Maria che ritornava al Signore, trapassata da una freccia che le fece strabuzzare gli occhi, versare sangue copioso dalla bocca, fare due passi barcollanti all’indietro, sbilanciarsi, tentare di chiamare la madre senza riuscirci e cadere con la testa nell’acqua del rio, le gambe e il tronco sull’erba, di fianco. La madre, terrorizzata, la raccolse così, accucciandosi e tenendola in grembo, mentre il sangue le colava sul vestito lungo.
Poi un pensiero, la faccia che scivolava ancor più nel terrore, lo scatto e il passo impacciato, dalla poca abitudine, dal vestito lungo e dalla fatica, verso la casa. Non gridava più la donna, non aveva più fiato, mentre si ripetevano più e più suoni come quelli di prima. Venivano ora da molte direzioni ma soprattutto dalla casa. E a Celestina Colombo parve di vedere delle figure muoversi dentro la foresta.
Quando giunse nella sua casa e sentì che altri ne stavano fuggendo, ebbe solo il tempo di impazzire, di lasciare che la ragione la abbandonasse per entrare nel limbo dell’incoscienza, dove non c’è più tribolazione. Né felicità, né sentimento umano.
Il suo piccolo Tommaso, o ciò che ne restava, giaceva sul pavimento della camera. Lo avevano probabilmente raccolto dalla culla e sbattuto più volte sul pavimento sino a fargli scoppiare il cranio ed uscirne le cervella, gli occhi, fracassato le piccole mandibole. Poi qualcuno era saltato più volte sopra il suo piccolo corpicino, sviscerando e spezzando ogni ossicino. Anche le gambette ormai non erano che informi segmenti di carne ed ossa.
La donna non agiva più per raziocinio e non gridava ormai più. Era quieta anzi e quieta era quella foresta che le il governo le aveva concesso, per cui era venuta qui dalle valli bergamasche, col suo uomo e la bambina piccola e la famiglia del suocero. Lasciando in Italia la madre, le sorelle, il padre e l’infanzia sua. Per sempre.
Guardava quel sangue, quel massacro, quei brandelli di carne e pezzi di osso e poi a passi brevi e pausati uscì di casa. Si diresse ancora verso il rio e vi giunse. Attorno a lei molti occhi la spiavano ma lei non vedeva più nulla. Si chinò e con sforzo raccolse in braccio Maria, con sforzo maggiore si alzò. E si avviò verso la casa nuova, quel loro sogno di rinascita, di futuro, di cuccia nuova anche. Ci mise un tempo grande per giungere al cortile ma volle fare di più. Entrò in casa, incespicando a volte, cercando di non far sbattere la testa o le gambe di Maria negli stipiti della porta, infilandovela quasi. E depositò quel corpo sui resti del fratellino. Senza un segno evidente di dolore, o anche solo di pensiero. Riprese fiato, un poco, poi ritornò alla porta e stava per uscirne.
La freccia la colse in quell’istante e la sua violenza la sbatté a terra, proprio sui suoi bambini. Vide una luce, un rosso che le veniva negli occhi. Poi sentì danzare il silenzio ed una pesantezza, giù verso lo stomaco. Non vide altro ma furono certamente le anime dei suoi figli a cogliere la sua per mano, e portarsela via, per tenerla sempre con loro.
Chico nel mato
…Chico ebbe a star male, era sempre tanto magro, sfinito dalla penuria del Nordest, dove era nato e dove aveva vissuto per tanto tempo.
-Il cuore – aveva detto il medico che Paulo aveva fatto venire, aveva pagato. Glielo avevano chiesto gli occhi di Lourdes, dopo che in casa erano venuti i benzedeiros e certi altri guaritori della foresta. Senza esito alcuno.
Il cuore, già, il cuore di Chico stava volgendo alla fine, stremato e consunto dal sertão. Nessuno, nemmeno lui stesso sapeva l’età di quell’uomo e solo si poteva intuire che stava sul cammino che dai cinquanta portava ai sessant’anni. Lo curò il medico ma senza portargliene vantaggio. La debolezza era infinita, l’appetito incerto, il corpo tremendamente smagrito mentre la voglia di vivere scemava.
Domingo lo vedeva appassire con la morte nel cuore e così Teresinha sapeva che senza Chico la famiglia si sarebbe perduta.
Si sentiva morire Chico, giorno dopo giorno ed ora dopo ora.
E quando sentì che le ore, ormai, sarebbero state poche e forse nemmeno una intera, fece chiamare il suo amico tirolese. E volle starsene con lui nella camera, per qualche minuto. Nessuno seppe quel che si dissero. Alla fine Paulo era uscito commosso, gli occhi bagnati. Aveva chiamato in disparte Lurdinha, finalmente con la voce dolce. Con lei, Domingo e Nelson erano entrati nella foresta ed avevano staccato dagli alberi dei rami. Certi rami robusti e leggeri. Era stato Chico che a tutti loro aveva insegnato la foresta.
Poi a casa del tirolese che con i suoi attrezzi aveva fatto quasi una sedia con certe bretelle in alto. Quella specie di sedia era stata issata sulle spalle di Paulo e sopra vi era stato fatto sedere Chico, debolissimo. Le sue ginocchia allargate, le braccia attorno al collo di Paulo. Non pesava quaranta chili dopo giorni e settimane di malattia ed era sempre stato magro e piccolo. Abbracciava quell’uomo tanto più grande di lui, con quella barba immensa, lui che aveva radi peli lunghi ed incolti sul viso. Erano stati amici, erano amici ancora e per sempre.
Li guardarono partire e sapevano. Faticava il tirolese, era uno sforzo immane il portare sulla schiena il fardello di un amico morente. E si si diressero verso la casa di Paulo, poi più in su, fin dentro la foresta.
-Guarda il bacoparí – diceva con un filo di voce Francisco Correa
-Questi palmitos sono quasi buoni da raccogliere – gli rispondeva Paulo.
Poi, parole sul canto di qualche uccello, tra una scudisciata e l’altra del tirolese che si faceva spazio nel verde con il facão e la fatica. A tratti doveva fermarsi, tirare a fondo il respiro. Ma sapeva che doveva essere con lui, doveva accadere là e non altrove. E ancora Chico doveva parlare. Sapeva anche questo. –Senhor Paulo – disse infine il vecchio brasiliano, con una voce ormai appesa al filo di una ragnatela – veglia su ciò che resta della mia famiglia. Se puoi.
Era venuta l’ora. C’era, là vicino, un grande jacarandá. Il tirolese vi accostò di schiena, piano, l’amico brasiliano e cercò di accucciarsi. Chiese a Chico di puntare, con la forza che aveva, le gambe al suolo. Fu un momento solo, si tolse le corde dalle due spalle, si girò e raccolse in braccio quel vecchio, lo mise seduto a terra, la schiena al grande albero.
Non disse nulla Paulo ma lo accarezzò sul viso, come non aveva mai accarezzato nessuno in vita sua. E parlò, per un’ultima volta al compagno che aveva gli occhi di pianto:
-Vai ora, tranquillo, Chico. Vai dove la tua onestà e la tua bontà sapranno condurti. Io veglierò sui tuoi.
Chico chiuse gli occhi, per sempre. Ma forse attese ancora un poco, qualche minuto in cui aprì di più gli occhi e la bocca, raccolse più luce e più aria. Raccolse tutto ciò che gli rimaneva dentro di coraggio. Per andarsene senza una lacrima.
Paulo si chinò ancora, si girò, raccolse quell’uomo sulle spalle. E lo portò alla casa dei suoi, dove lo attendevano morto.
Ma nel viaggio gli parlò ancora: lo ringraziò, gli disse del bene che gli aveva voluto, si scusò per certi pensieri. Lo rassicurò su Lurdinha e Domingo. Pianse, pianse molto il tirolese, e singhiozzò forte in quella foresta, ma quando furono alla casa dei Correa i suoi occhi già erano secchi.